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Soldi tagliati o soldi deviati?

Una chiave di lettura su quello che sta rischiando la ferrovia italiana

 

Scritto a marzo 2012. Articolo originale pubblicato su : http://www.miol.it/stagniweb/tagli12.htm

 

<< Per questo sono da evitare le proposte di “fanta-ferrovia”, che richiedono investimenti infrastrutturali o che vorrebbero far virare la ferrovia verso qualcosa di diverso, come il tram-treno, per fare l’esempio più citato. >>

Dopo le vicende del Catalogo Trenitalia che avevano portato a una crescita del sussidio statale, risparmiando però i tagli al servizio, da oltre due anni la ferrovia italiana vive nel peggior clima di precarietà dell’ultimo decennio. Abbiamo già raccontato il lungo e triste elenco di leggi e accordi che hanno prima generato e poi gestito questa ambigua situazione. Tuttavia oggi esiste il rischio concreto di veder chiuse intere linee, con un giro di vite che sembra riportarci ai periodi più bui degli anni ’60. Con la differenza che qui il nemico della ferrovia non è più il boom economico e l’illusione di un roseo futuro automobilistico, ma l’idea di poter mettere le mani su finanziamenti diventati appetibili, unita a una visione distorta della ferrovia, che sembrano averne i due Ministeri competenti, quello dell’Economia e quello dei Trasporti.

Chi sta provando a difendere la ferrovia da questi attacchi mi ha chiesto un aiuto, anche proprio per interpretare la realtà dei fatti; penso sia utile proporre a tutti i lettori le riflessioni che ne sono uscite.

Contenuto


I soldi dello Stato – che cosa è cambiato

Le Regioni si occupano del trasporto ferroviario regionale dal 2001. Per 10 anni, dal 2001 al 2010, le Regioni hanno pagato Trenitalia con risorse ricevute direttamente dallo Stato e “vincolate”, cioè utilizzabili solo per pagare Trenitalia (1181 milioni di euro all’anno a livello nazionale).

Addirittura, nell’ultimo triennio 2009-2011, lo Stato ha dato direttamente a Trenitalia altri 430 milioni all’anno, senza nemmeno farli passare dalle Regioni.

Con i “tagli” del 2010-2011 la situazione è cambiata: in realtà non è stato tagliato quasi nulla delle risorse per Trenitalia. Qualcosa è stato tagliato al resto del Trasporto Pubblico Locale, agli investimenti (nuovi autobus), alla manutenzione delle reti regionali, ma molto meno a Trenitalia. Infatti, con una scelta confusa e discutibile, i soldi sono stati prima tagliati in blocco e poi ripristinati “a pezzetti”, di modo che il totale (sia per il 2011, sia per il 2012) è molto simile al valore del 2010, prima dei tagli.

Tuttavia, queste risorse date a pezzetti non sono più vincolate a Trenitalia, ma (soprattutto quelle del 2012) appartengono a un generico “Fondo per il trasporto pubblico locale, anche ferroviario”, per un totale di 1200 milioni (400 con il Dlgs DL 98/2011 art. 21 comma 3 e 800 con il DL 201/2011, art. 30 comma 3). La norma di legge, volutamente ambigua, lascia molto più margine di manovra alle Regioni.

Dare soldi “vincolati” non responsabilizza le Regioni ma, per contro, evita che quei soldi vengano spesi per finalità diverse. Ora che i soldi ex-Trenitalia non sono più vincolati, sono diventati “spendibili” anche per altri scopi: in primo luogo le autolinee.

A titolo di esempio si mostra una slide da una presentazione ufficiale della Regione sul nuovo contratto di servizio Trenitalia. La slide enfatizza la possibilità di dare in appalto le autolinee a operatori locali. Tradotto in termini pratici, significa: ieri i servizi sostitutivi erano “trasparenti” per la Regione (perché obbligatoriamente in capo al Gruppo FS), oggi diventano un business.

Slide da una presentazione sul nuovo contratto Trenitalia.

Il riferimento a operatori umbri, campani e laziali è semplicemente la compagine sociale della Sogin, società del Gruppo FS. A noi vederlo citato così, su una slide ufficiale di una Regione, non sembra una cosa particolarmente all’insegna del buon gusto, ma forse è un segno dei luoghi e dei tempi…

 

Nel nuovo contesto, il business delle autolinee e la disponibilità di risorse non vincolate a Trenitalia rendono particolarmente vantaggiosa la soppressione delle ferrovie, ancor prima di qualunque esame sul bene per la collettività.

Provo a dirlo in un altro modo ancora più brutale: alle Regioni, come forse alla maggioranza degl’italiani, delle ferrovie è sempre importato poco o nulla. Il federalismo “finto” del decennio scorso, in cui la competenza era delle Regioni ma i soldi erano puramente “in transito” dallo Stato a Trenitalia, ha aiutato a mantenere lo status quo, nel bene e nel male; il taglio del servizio, che pure è avvenuto, è stato gestito da Trenitalia per scopi prettamente aziendali, come il degrado dei servizi interregionali per favorire i più costosi Intercity. Del resto, là dove alle Regioni si è provata a chiedere una qualche capacità strategica, come per la messa a gara dei servizi, si è avuto un “nulla” pressoché unanime.

Oggi un federalismo un po’ più vero sta per permettere alle Regioni di fare ciò che interessa davvero. Ed è fin troppo evidente che le ferrovie non interessano. A una visione cinica della realtà, non si può che concludere: i cittadini avranno semplicemente quello che si meritano e (forse) che vogliono. Chi invece ama la ferrovia e pensa che possa dare ancora molto al Paese, cerca di andare oltre, di testimoniare e di controbattere.


Un esempio: la politica ferroviaria del Piemonte e dell’Abruzzo

Da nord a sud, con una sola idea in comune: dismettere. La Regione Piemonte ha manifestato l’intenzione di chiudere a giugno 2012 un numero considerevole di linee. L’elenco (informale) è il seguente:

  1. Alessandria-Ovada (rimarrebbe aperta per il servizio merci)
  2. Asti-Casale-Mortara (già chiusa da settembre 2010 per galleria pericolante)
  3. Asti-Chivasso (già chiusa da settembre 2011 per galleria pericolante)
  4. Ceva-Ormea
  5. Cuneo-Mondovì
  6. Cuneo-Saluzzo (rimarrebbe il servizio merci)
  7. Novara-Varallo
  8. Novi-Tortona (rimarrebbe il servizio merci e verosimilmente i treni per/da Milano)
  9. Pinerolo-TorrePellice
  10. Vercelli-Casale

Si noti che tutte le linee citate sono già abitualmente chiuse nei mesi estivi. Quindi la decisione di sopprimerle a giugno vorrebbe dire che viene fatta la chiusura estiva, ma non vengono più riaperte a settembre. Ovviamente questa è una scelta fatta di proposito per minimizzare l’impatto sulla popolazione e dunque il rischio di contestazioni.

La stessa cosa è stata già fatta nei due anni scorsi (settembre 2010 e settembre 2011) per le due linee già chiuse; in quei casi si è trovata la “scusa” di una galleria pericolante, ora si agirebbe in maniera più esplicita.


Le stesse politiche sono state adottate con “successo” da varie altre Regioni nell’ultimo biennio. L’esempio più evidente è sulla Sulmona-Isernia, via Castel di Sangro-Carpinone, in Abruzzo e Molise, chiusa proprio in due fasi:

  • a ottobre 2010 è stata soppressa la tratta Castel di Sangro – Carpinone (Molise), di modo che le 4 corse giornaliere che arrivavano/provenivano da Napoli sono state “troncate” a Castel di Sangro. Questa soppressione è stata giustificata con la scusa di “consentire la manutenzione straordinaria delle locomotive diesel” (sic);
  • a dicembre 2011 le 4 corse, diventate ormai del tutto inutili, sono state soppresse anche nella restante tratta Sulmona-Castel di Sangro (Abruzzo). In questo caso non è stata addotta alcuna scusa, ma si è parlato semplicemente di “razionalizzazione dei servizi” (vai all’articolo completo).

 

La chiusura preventiva per neve

Ovviamente la chiusura di una ferrovia viene “preparata” per tempo, abituandone all’idea, per così dire, gli utenti che ancora la vogliano utilizzare. Un caso quanto mai didattico si è verificato in occasione della nevicata di inizio febbraio 2012. Negli anni scorsi ci eravamo già resi conto che la ferrovia, persino quella ad Alta Velocità, andava in crisi anche per pochi centimetri di neve. Più di recente abbiamo fatto conoscenza con il Piano Neve, un nome vagamente eufemistico per dire che, non appena comincia a nevicare, la ferrovia “si arrende a priori” e riduce il numero di treni in circolazione, nella speranza che sopprimendoli da subito, evitino di bloccarsi chissà dove con viaggiatori a bordo.

Il 9 febbraio 2012 si è introdotta una variante: la chiusura preventiva, alla sola minaccia di nevicate, prima ancora che queste abbiano inizio. E quali sono le uniche tre linee del Nord Italia che vengono chiuse preventivamente? Ma è ovvio: le tre più a rischio di chiusura, Cuneo-Mondovì, Cuneo-Saluzzo-Savigliano e Ceva-Ormea. Veramente difficile non pensar male… Per la cronaca, come si poteva immaginare, la nevicata del 9-10 febbraio è stata piuttosto modesta, non paragonabile a quella della settimana prima, ma intanto il concetto di chiusura preventiva è stato “proficuamente” introdotto.

 

Ceva-Ormea: vent’anni sulla china
La Ceva-Ormea, forse la più “povera” tra le linee che la Regione Piemonte cerca di chiudere, si trova in una situazione fortemente critica dovuta a un mix di cause: relativamente ridotto numero di abitanti della valle, strada parallela e autolinee parallele, poche corse ferroviarie (solo 9 al giorno), mancanza di servizio ferroviario nei festivi, per tutta l’estate, Natale e Pasqua (solo 211 giorni di servizio all’anno su 365).Fino al 1990 la linea contava 14 corse nei feriali e 12 nei festivi ed era aperta tutto l’anno. Nel 1991, al pari della maggioranza delle linee minori piemontesi, è rimasta chiusa per ristrutturazione (rifacimento dei binari e generale automazione degli impianti e dei passaggi a livello): un intervento che al tempo ebbe un ruolo importante nell’evitarne la chiusura.Nel 1992 ha riaperto con 12 corse, feriali e festive. Tra il 1993 e il 1996 ha contato 13 corse, solo feriali (autobus la domenica) con chiusure estive variabili: solo per 15 giorni ad agosto nel 1994, tutto luglio e agosto nel 1996, negli altri anni solo alcune riduzione di corse: come si vede, le idee non erano proprio chiarissime…Il 1997 è stato l’ultimo anno senza soppressioni estive, con 9 corse feriali e 10 festive. Dal 1998 la linea è sempre rimasta chiusa tutta estate (da metà giugno a metà settembre) mantenendo 9 corse feriali e 10 festive. Dall’inverno 2004/2005 è chiusa anche nelle vacanze di Natale e Pasqua e nei festivi. Si noti che, se si ha qualche speranza di raccogliere viaggiatori non pendolari, è proprio in questi periodi, visto che Ormea e Garessio sono ancora località di villeggiatura di qualche peso.In seguito, fino al dicembre 2005 si sono effettuate 13 corse feriali, poi ridotte a 9, che sono quelle rimaste in esercizio fino ad oggi. In figura sono mostrate le ore e minuti di partenza fino a dicembre 2005, prima del taglio di 4 corse, e quelle dell’orario invernale 2011/2012 (9 corse tra andata e ritorno, più un invio a vuoto la mattina). Immaginare che un servizio simile possa catturare utenza è veramente utopico, ancor prima di considerare tutti gli altri elementi di contesto.

 


Trenord in Lombardia: un proposta differente

In Lombardia, sin dal 2009, si è seguita una strada diversa, che in un certo senso ha “portato in casa” il problema delle ferrovie, facendole sentire come un tema regionale, in chiara contrapposizione a Trenitalia, generalmente vista come azienda nazionale e lontana. Ad agosto 2009 è stata costituita la nuova società Trenitalia – LeNORD srl (brevemente TLN), che come dice il nome, è un’unione di Trenitalia e di LeNORD, le due imprese ferroviarie che già operavano in Lombardia.

Per i primi mesi TLN è stata una specie di scatola vuota, ma poi dal 15 novembre 2009 ha ricevuto in affitto i rami d’azienda della Direzione Regionale Lombardia di Trenitalia e di LeNORD. Da quel momento, TLN ha cominciato a utilizzare personale, treni e ogni altro fattore produttivo, “come fossero suoi”, appunto in regime di affitto.

TLN è partecipata pariteticamente da Trenitalia e da FNM (la capogruppo di LeNORD), cioè entrambe le aziende hanno esattamente il 50% della proprietà di TLN. Quindi TLN non è controllata né dall’una né dall’altra, perché per dire che un’azienda ne controlla un’altra, deve averne più del 50% di proprietà.

L’affitto, definito “sperimentale”, non poteva proseguire indefinitamente: avrebbe dovuto durare 11 mesi ma, vista anche la grande incertezza a livello di finanziamenti statali, è stato in realtà prorogato fino ad aprile 2011. Dal 3 maggio 2011 il regime di affitto è sostituito dal conferimento vero e proprio. Cioè TLN “si prende in proprietà” quello che prima aveva in affitto. Nel contempo TLN cambia nome – senza particolare eccesso di fantasia – diventando Trenord srl. Trenord è un’impresa ferroviaria a tutti gli effetti, dotata di licenza e di certificato di sicurezza, che oggi effettua tutti i treni appartenenti al contratto di servizio con Regione Lombardia. Resta confermata la quota 50-50 dei due proprietari.


L’opinione che ho sempre avuto è che una concentrazione monopolistica, quale è appunto Trenord, non fosse una condizione necessaria per far andar bene il servizio, nemmeno per ottenere quel minimo di integrazione, ad esempio tariffaria, che normalmente in Europa si ha tra imprese differenti (e si aveva anche da noi dieci anni fa). Il timore che avevo è che Trenord non fosse nemmeno una condizione sufficiente per migliorare la qualità del servizio, perché ahimé un treno può fare ritardo indipendentemente da quello che ne pensino i vertici politici e aziendali.

Ma le cose non vanno mai viste da un lato solo, specie in una situazione nazionale ambigua e confusa come questa, ed è altrettanto vero che senza Trenord nel 2009 non avremmo mai avuto il prolungamento delle Linee S5 ed S6 a Treviglio, nel 2010 la S1 a Lodi, nel 2011 la S13 a Pavia e tutti gli altri potenziamenti che ci sono stati. Regione Lombardia ha trovato i 40 milioni di euro necessari per i nuovi servizi del biennio 2009-2010 solo perché era nell’ottica di darli a una propria azienda, Trenord appunto. Non li avrebbe mai trovati – come non li stava trovando in tutti gli anni precedenti – per darli a Trenitalia, che era vista come un’azienda lontana e che non la coinvolgeva.

Poi sono arrivati anche i tagli delle risorse statali: veri, presunti, applicati, cancellati, come abbiamo lungamente raccontato. Un dato di fatto è però pressoché certo: se non ci fosse stata Trenord, anche in Lombardia ci sarebbero stati gli stessi tagli che abbiamo dovuto elencare per Liguria, Piemonte, Campania, Abruzzo e così via. Ma è evidente che era politicamente improponibile creare una nuova azienda, una propria azienda, e come primo risultato tagliare i servizi: questo ha permesso, per così dire, di “passare la burrasca”, o almeno la sua fase più acuta, non solo indenni, ma addirittura proseguendo un forte progetto di crescita del servizio, caso sostanzialmente unico nel panorama delle Regioni italiane. La Linea S13 attivata l’11 dicembre 2011, una settimana prima della firma dell’Accordo Governo-Regioni che avrebbe stabilito le risorse per il 2012(!), era l’ultima Linea S che ancora mancava ed è andata a completare l’intero progetto iniziato nel 2004. Ci sembra di poterla considerare come il “punto di non ritorno” verso un sistema ferroviario di cui non vergognarsi, ed essere anzi moderatamente orgogliosi: punto ancora più significativo se correttamente visto nel contesto di tutte le altre Regioni.


La visione del Ministero: “tagliare gli sprechi” in un guazzabuglio di equivoci

A completare il quadro va citata anche la posizione che sembrano tenere i due Ministeri competenti: quello dei Trasporti e quello dell’Economia. Assecondando la generica spinta al risparmio che caratterizza la finanza pubblica, entrambi i Ministeri sembrano aver pienamente sposato una logica così riassumibile: le ferrovie costano troppo, sono uno spreco, bisogna “razionalizzare”. Il problema è però il solito: in mancanza di una chiara visione progettuale, la parola “razionalizzazione” perde il suo vero significato di creare un servizio razionale e diventa un sinonimo eufemistico di taglio: si tagliano le risorse sperando di riuscire a tagliare i servizi, “quelli inutili che tanto non li prende nessuno”.

In questo quadro si colloca il “Patto per l’Efficientamento e la Razionalizzazione del Trasporto Pubblico Locale italiano”, previsto dall’Accordo del 21 dicembre 2011 (testo), Patto che avrebbe dovuto essere sottoscritto entro febbraio 2012 e che rappresenta una specie di chimera: è infatti veramente arduo immaginare che cosa possa venirci scritto con un minimo di senno, e senza che diventi una disfatta per la ferrovia. Sulla scorta dei lavori per la stesura del Patto, credo sia utile elencare alcune delle posizioni ministeriali emerse, adeguatamente commentate.

  • Si vorrebbe l’immediata riprogrammazione dei servizi in modo da far sì che rispettino il rapporto del 35% tra i ricavi dei biglietti e i costi del servizio, per singole linee di trasporto.

Anche con le eventuali deroghe che si sono ipotizzate per generiche aree a domanda debole, si tratta di un’applicazione pressoché irrealizzabile, in quanto comporterebbe la scomparsa del trasporto pubblico da intere Regioni (alcune delle quali non raggiungono il 35% nemmeno per l’intero contratto Trenitalia). Ma soprattutto si tratta di un requisito che, a livello di singola linea, non è previsto da nessuna legge! La normativa vigente parla molto più saggiamente del 35% per l’intero contratto di servizio, ed è già un obiettivo difficile, da perseguire con determinazione e molteplicità di azioni, certamente non con una sforbiciata delle “linee passive”.

  • Si ipotizza che nelle aree a domanda particolarmente debole si possa derogare al 35% purché si faccia ricorso alla modalità di trasporto più economica.

Il richiamo alla “modalità di trasporto più economica” rischia di avere effetti catastrofici sulla ferrovia, che dal puro punto di vista economico si trova sempre perdente nei confronti degli autobus, con un sussidio medio dell’ordine di 10 euro/km contro i 2 o 3 delle autolinee. Questo naturalmente non toglie che la ferrovia potrebbe (e dovrebbe!) costare meno. Ma chiedere la modalità più economica, tout court – oggi e a condizioni immutate – significa inevitabilmente pensare alla chiusura della ferrovia.

  • Si prevede l’applicazione di criteri di premialità per favorire investimenti nel settore per le regioni che hanno effettuato la riprogrammazione dei servizi.

Da tutto il contesto è evidente che i Ministeri intendono la “riprogrammazione” coma tagliare i servizi (“inutili”, nella visione pragmatico-contabile che ne sta alla base). Ma in questa accezione, la premialità proposta significa dare più risorse a chi ha tagliato, il che è in palese contraddizione: se uno ha già tagliato, ha bisogno di meno risorse. A meno, beninteso, che quello che si voglia ottenere non sia una bellissima flotta di treni e bus nuovi… che se ne stanno fermi in deposito (e non ci pare questa un’ipotesi troppo remota, visti vari precedenti…).

  • Si dichiara che il principio fondante dell’efficientamento e della razionalizzazione del trasporto pubblico è finalizzato a liberare risorse finanziarie per il miglioramento dei servizi offerti sul territorio e quindi della qualità della vita dei cittadini.

Appare fortemente utopico. La riprogrammazione dei servizi (cioè il taglio) libera risorse assolutamente modeste, del tutto inadeguate a migliorare il servizio “dove serve”. Non è tagliando due coppie di treni regionali in Abruzzo che si ricavano risorse sufficienti per finanziare una Linea S con frequenza di 30 minuti in un’area metropolitana del Nord. Senza contare il conflitto territoriale che un simile meccanismo innescherebbe, dato che una sua applicazione – se dovesse spostare quantità non trascurabili di risorse – significherebbe in misura preponderante tagliare al Sud per finanziare il Nord.

  • Si immagina di definire indicatori oggettivi di performance del sistema prima e dopo la riprogrammazione, quali ad esempio posti-km offerti rispetto alla popolazione, frequenze medie nelle ore di punta e di morbida, età e classe ambientale della flotta, velocità commerciale media, regolarità del servizio e soppressioni, accessibilità ai disabili, livello delle informazioni al pubblico.

Anche questi indicatori appaiono largamente utopici. Ogni volta che verrà trovato un indicatore a un livello insoddisfacente (frequenza, velocità, ecc.), inevitabilmente si scoprirà che migliorarlo ha un costo: non è certamente gratis, né tanto meno il suo miglioramento può essere ottenuto tagliando risorse e servizi. L’esperienza quotidiana di 10 anni di sviluppo del servizio in Lombardia (800 milioni di investimenti sulla flotta, 80-100 milioni di risorse regionali aggiunte in spesa corrente) sta a dimostrarlo oltre ogni dubbio.

  • Si parla di includere i fondi oggi finalizzati al trasporto ferroviario in una unica voce, da ripartire tra i vari soggetti/vettori interessati.

Si tratta di un altro elemento di rischio per le ferrovie, perché tende a spostare risorse dal sistema ferroviario (come abbiamo visto, percepito “lontano” dalla politica regionale, in quanto gestito da Trenitalia “centralizzata”) verso il sistema delle autolinee, che possono contare su lobby molto attive a livello regionale.

Ricordo che per ora (inizio marzo 2012) queste sono solo bozze di lavoro, perché questo Patto ancora non esiste. Ma se, dopo tutto questo, ancora una volta il lettore è preoccupato prima di tutto per le idee, la lungimiranza e la competenza di chi dovrebbe governarlo, probabilmente ha visto giusto, purtroppo.


E dunque, che cosa proporre?

E’ evidente che le linee di cui si teme la chiusura si trovano oggi in una posizione del tutto marginale rispetto al sistema della mobilità, cioè, detto senza perifrasi, trasportano davvero pochi viaggiatori. Il riquadro sulla Ceva-Ormea e l’analisi degli orari della Sulmona-Isernia dovrebbero aver fatto capire come questo sia semplicemente il frutto di un degrado crescente, costruito passo dopo passo nel corso degli anni. Se si vuole pensare a un rilancio di queste linee occorrere definire:

  • il tipo di servizio a cui si punta (ad esempio conservare l’attuale, aumentare il numero di corse, riaprire la linea d’estate e/o nei festivi, fare un servizio turistico solo nel week-end, e così via);
  • se sono disponibili altri finanziatori, come ad esempio la Provincia o i Comuni attraversati

Quest’ultimo punto è fondamentale e, temiamo, sottovalutato: occorre infatti confrontarsi con il fatto che la Regione non vuole più spendere nemmeno quello che spende oggi. Per questo sono da evitare le proposte di “fanta-ferrovia”, che richiedono investimenti infrastrutturali o che vorrebbero far virare la ferrovia verso qualcosa di diverso, come il tram-treno, per fare l’esempio più citato. Già solo per offrire un servizio ferroviario migliore, il costo per l’ente pubblico non può che aumentare. Nel caso della Ceva-Ormea, ad esempio, il sussidio attuale può essere stimato in circa 780.000 euro/anno (10,5 euro al km per 74.700 km/anno); se si volesse offrire un treno ogni due ore (14 corse) si passerebbe a 1.100.000 euro. Per avere le corse attuali ma circolanti per tutto l’anno occorrerebbero 1.360.000 euro.

In ogni caso, scartati gli investimenti infrastrutturali, occorre agire a livello di organizzazione del servizio e di creazione di un sistema integrato di trasporto pubblico, non a parole ma nei fatti. O la ferrovia diventa elemento portante di un sistema strutturato di mobilità o qualsiasi orario, anche ben fatto, fa la fine a cui siamo ora. Detto in altre parole, o la ferrovia serve per andare da Ceva a Ormea, da ogni stazione ad ogni altra, da ogni stazione a Torino, da ogni stazione a Savona e da ogni stazione a tutti i paesi dell’alta valle proseguendo col bus verso Albenga, Imperia e Calizzano, o appare davvero remoto pensare di raccogliere viaggiatori a sufficienza da giustificarne i costi, che restano comunque alti.

Il tram-treno è una non-soluzione non tanto perché dalle nostre parti è estraneo alla cultura del trasporto pubblico ma perché si continua a non focalizzare il problema. A che serve un tram-treno ogni 30 minuti? A collegare i cinque piccoli comuni dove passano i binari? Rischia di essere comunque un po’ sovradimensionato. La S18 di Zurigo (tram-treno autentico) ad ogni fermata vede un bus che parte e collega in modo cadenzato tutte le località servibili da quella fermata. Solo in pochi casi fortunati ci si può continuare a disinteressare della programmazione coordinata degli orari: ad esempio in Lombardia, se lungo la linea S4 della Brianza i bus sono programmati male (meglio: non sono programmati affatto) la quantità di persone che raggiunge il treno è talmente elevata – e il treno talmente concorrenziale, in mezzo alla congestione automobilistica – da far credere che la ferrovia esprima il 100% delle sue potenzialità. Ma basta spostarsi in Valtellina e subito ci si accorge che gli unici treni che funzionano “da soli” sono quelli su Milano, che hanno appeal perché veloci e diretti a un polo grosso, più che capillari.

Ribadiamo: per dieci anni ci siamo accontentati di campare sullo status quo, e le Regioni, quasi tutte, hanno fallito il loro compito di programmare il servizio ferroviario (e il resto del trasporto pubblico). Ora le Regioni si stanno svegliando, ambiguamente incoraggiate da un Governo centrale privo di idee (e verosimilmente anche di competenza), e il rimedio rischia di essere peggiore del male.


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