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NON BRUCIAMO(CI) IL FUTURO …

L’ambiente si interfaccia all’economia. E’ sempre stato così, ma ora che lo sviluppo produttivo ha raggiunto i confini del mondo non c’è più un altrove da cui continuare a prelevare risorse gratis e senza evidenti conseguenze. Ogni aspetto del processo produttivo non può far a meno di consumare risorse in modo sempre più accelerato, sottraendole all’ambiente anche qui da noi e finendo coll’impoverirlo sempre più, se non addirittura con l’avvelenarlo.

Tale giustapposizione è ancora più evidente da quando il sistema produttivo si è buttato sulle risorse rinnovabili per ricavarne energia, sulle biomasse in particolare.
I campi e i coltivi alimentari sono rimaneggiati per far posto alle coltivazioni energetiche: cereali per la produzione di etanolo; piante oleaginose (colza e soia) per ricavare biodiesel; insilato di mais, sorgo erbaceo e pioppeti biennali per alimentare inceneritori per la produzione di energia elettrica.
I boschi, che la Comunità Europea dichiara patrimonio intoccabile, vengono diradati per alimentare il mercato della legna da ardere, il mercato del pellet e quello del cippato con cui alimentare inceneritori termoelettrici.

Perfino le biomasse animali non sfuggono a tale predazione.
Per il sistema agroindustriale è molto più conveniente bruciare scarti di macellazione da cui ricavare elettricità e incentivi pubblici che non produrre mangimi.
Produrre sta diventando secondario. Principale è far soldi, accrescere il budget finanziario.
Rossano Ercolini, di Ambientefuturo, ha stilato una lista di centrali a biomassa per produrre elettricità che costellano tutto il nostro paese, ma che hanno infarcito in modo particolare la Puglia e la Calabria.
Centrali funzionanti a Cutro, Rossano,Laino, Strongoli,Crotone, Rende (in Calabria) per più di 1.200.000 tonnellate di biomasse bruciate.
A Casarano, Monopoli, Massafra, Molfetta, Manfredonia( in Puglia) per più di 700.000 tonnellate di biomasse bruciate.
Tutte di proprietà di aziende del Nord o straniere, come Enel, Maccaferri, Eridania, attirate dalla massa di soldi facili degli incentivi.
Ma altre decine di progetti di centrali tra i 10 e i 50 Mw sono già presentati ai comuni del Sud per la Via, per bruciare olio di palma e scarti di legname da deforestazione fatti arrivare da oltreoceano via nave nei porti di Taranto e Crotone.
Pare proprio che il Pdl abbia spianato la strada a Confindustria per l’accaparramento degli incentivi pubblici, i certificati verdi, i soldi delle nostre bollette.
Anche al Nord sono sorte centrali a biomassa di grossa taglia, tipo quella da 38 Mw a Brunico, ma quasi tutte sono concentrate in Alto Adige e in Trentino.
Sono nate per bruciare scarti di segheria (segatura) e ricavarne calore ad uso industriale o da riscaldamento, come quasi tutte quelle presenti nei paesi alpini o nella scandinavia. Ma dopo gli accordi di Kyoto (1997) e la loro adozione da parte della Comunità Europea (2002), gli stati le hanno dotate di incentivi per produrre energia elettrica. Da allora fanno cogenerazione, cioè producono anche energia elettrica.
Hanno raggiunto una potenza complessiva di 150 Mw e bruciano circa 250.000 tonnellate di cippato annue. Ma quasi niente viene dal taglio dei boschi, se non segatura dal taglio dell’industria del legno che importa anche molto legname dall’estero.
Il resto del cippato viene dall’Appennino o addirittura da Rotterdam via nave. Così le abetaie non vengono tagliate e il preziosissimo turismo non ne risente. I soldi ricavati li hanno investiti nel teleriscaldamento recuperando il calore prodotto nelle centrali e sostituendo così il gasolio da riscaldamento.
Furbi, hanno messo soldi anche nei filtri, non limitandosi a quelli meccanici a ciclone, ma introducendo quelli a maniche ed elettrostatici, molto più costosi, per ovviare il più possibile alle emissioni nocive.
Hanno potuto farlo perchè, come afferma Federico Valerio, le centrali a cogenerazione diventano economiche sopra i 20 Mw, quando il loro rendimento diventa più efficiente.
Sulla base dell’esperienza dell’Alto Adige, Spinelli e Seknus, rispettivamente del Cnr e dell’università di Friburgo, hanno fatto una ricerca nel Nord-est per cercare di costruire un mercato del cippato che permettesse l’approvvigionamento di centrali per il teleriscaldamento.
La conclusione cui sono giunti è che il mercato della legna da ardere è più conveniente di quello del cippato, per cui sarebbe necessario far nascere da zero delle cooperative di taglio industriale che, oltre al tondame, fossero in grado di utilizzare anche le ramaglie e i cimali, in pratica tutto quello che i boscaioli lasciano sul posto a marcire.
In pratica, secondo loro, le regioni dovrebbero finanziare tali cooperative dotandole di harwester a bracci allungabili per il taglio a pianta intera, di trattori con rimorchi e di cippatrici. Strumenti che permetterebbero loro di fare il taglio industriale. Questo consisterebbe nel diradamento al 50% dei boschi, ricavando circa 50 tonnellate per ettaro.
Attualmente i boscaioli applicano il taglio raso nel ceduo con rilascio di matricine ed ottengono circa 100 t. per ettaro.
Costoro teorizzano che i boschi delle Prealpi e dell’Appennino potrebbero essere dimagriti del 50% per dar vita a piccole centrali sotto il Mw, a filiera corta, per produrre teleriscaldamento ed elettricità.

Il Pd del Piemonte ha adottato in pieno tale studio, formulando nel 2009 il progetto Bresso che prevedeva il diradamento dei boschi per alimentare decine di centrali a cogenerazione a filiera corta per produrre da biomasse almeno il 10% dell’energia necessaria alla Regione.
Il WWF si oppose fermamente. La regione Toscana, l’Emilia Romagna e il Pd seguono la stessa strada dei finanziamenti per sviluppare il taglio industriale, il diradamento dei boschi e la costruzione di un mercato del cippato. Parlano, però, solo di filiera corta e di centrali per il teleriscaldamento.
Certo che, a differenza dei paesi prealpini popolosi e con un’industria turistica fiorente, il teleriscaldamento in borghi appenninici semiabbandonati sembra proprio un controsenso: 3/4 delle  case sono chiuse quasi tutto l’anno e la gente ha la legna da bruciare gratis.  Eppure ne vogliono costruire a decine.
Proprio Dall’Olio, il competitor di Bernazzoli alle primarie del Pd a Parma è quello che in un documento della Provincia afferma che nella nostra montagna se ne potrebbero costruire una trentina. Finanziate coi fondi FAS (fondi aree sottoutilizzate : 3/4 dalla UE e 1/4 dalla Regione), tali centrali si stanno diffondendo nei paesi quasi vuoti della montagna. Sono considerate virtuose perché non si propongono di fare cogenerazione per produrre anche energia elettrica e quindi non accedono agli incentivi per trarne profitto.  Sono considerate sostenibili perché a filiera corta (rifornite nell’ambito locale, massimo 70 Km).

In realtà sono antieconomiche, inquinanti e non producono lavoro.Ne sono una prova le 3 centrali funzionanti nella nostra montagna.

In quella di Borgotaro-ospedale (700 Kw, costo 500.000 euro) hanno dovuto smettere di bruciare cippato fresco perché bruciava male, aveva un basso rendimento calorifico e produceva grandi quantità di fumo e di ceneri. Hanno dovuto rifornirsi di cippato di legna stagionata (meno umida) e ricorrere alla centrale a metano, ancora esistente nell’ospedale, per abbattere i bassi termici di quella a cippato ed evitare così di appestare l’aria di un ospedale.

In quella di Monchio (923 Kw, costo 650.000 euro) hanno già speso altri 100.000 euro in teleriscaldamento (costo 500 euro al metro) solo per allacciare 5 edifici comunali.
Funziona solo al 20% della sua capacità e brucia il 50% in più di cippato perché l’umidità di questo ne abbassa il rendimento e ne aumenta di molto le emissioni e le ceneri.
Queste arrivano in pratica al 5% della massa bruciata ( 150 q. su 3.000 q.).
Dove smaltirle? Nei boschi, naturalmente. Ma in un ettaro di bosco, stando alla normativa, ce ne possono andare solo 8 o 10 q. e poi per 30 anni non se ne parla più.
Finirà che riempiranno i boschi di cenere, che non è solo composta di K, Ca e Mg, macroelementi della fertilità, ma anche di metalli pesanti in quantità tossica per il sottobosco.

Nella centrale di Palanzano (700 Kw, suddivisa in 2 caldaie da 350 Kw, costo 426.000 euro) di fronte agli stessi problemi di Monchio nel bruciare cippato fresco (50% di umidità, con forti emissioni nocive e grosse quantità di ceneri) hanno pensato di bruciare pellet di provata  tracciabilità (10% di umidità e dieci volte in meno di emissioni e ceneri).
A quel punto devono essersi anche detti che la centrale era inutile e costosa. Sarebbe bastato dotare i 5 edifici di caldaie automatiche a pellet da 60 Kw di potenza, capaci di riscaldare fino ad 800 m2 di superficie e dal costo di 36.000 euro (Iva e installazione comprese), detraibili al 55% in 10 anni.
In tal modo il costo reale di ognuna di loro sarebbe stato di 16.000 euro e quello complessivo di 80.000.
In sostanza, la centrale di Borgotaro, pur inquinante e fuori luogo all’interno di un ospedale, dal punto di vista della combustione del cippato costituisce un’anomalia irripetibile e costosa. La centrale di Palanzano ha dimostrato che bruciare cippato fresco ricavato dal taglio industriale a pianta intera è un’assurdità in termini di rendimento e di emissioni, al punto da ridursi a bruciare  pellet, combustibile costoso e tipico delle caldaie famigliari.
La centrale di Monchio, con il suo basso rendimento, le emissioni nocive e l’alta percentuale in peso di ceneri costituisce l’effettivo prototipo di resa delle altre quattro centrali di cui è già stato stanziato il finanziamento nella nostra provincia: Neviano, Calestano, Berceto e Varano Melegari. L’impressione è che questi inceneritori costosi e sottoutilizzati finiranno per fare anche cogenerazione.  Una volta installati e fallito il collegamento del teleriscaldamento coi privati, le amministrazioni  diranno che è uno spreco non ricavare anche energia elettrica e stupido non intascare i soldi degli incentivi. A quel punto, però, il problema emissioni nocive e volume di ceneri diventerà molto più grosso.

Infatti il rendimento delle centrali nel fare cogenerazione è così basso (15-18%) che occorrerà bruciare 5 volte più cippato che non per produrre solo calore.

Occorrerà, come del resto era stato preventivato in Piemonte, un diradamento massiccio dei boschi, già fortemente intaccati dalla speculazione della legna da ardere.
Le centrali a biomassa del nostro Appennino diventeranno così un’ulteriore fattore di degrado della montagna, contribuendo al rimaneggiamento dei boschi, al consumo di acqua (raffreddamento delle caldaie), all’infertilità dei suoli (ceneri), all’inquinamento dell’aria. Il tutto senza minimamente creare occupazione o traino per la già disastrata economia locale.
Soldi buttati, che andrebbero diversamente investiti nella ristrutturazione dei borghi per il risparmio energetico e per lo sviluppo turistico di qualità.

Giuliano Serioli
Rete Ambiente Parma
22 febbraio 2012
www.reteambienteparma.org – info@reteambienteparma.org
comitato pro valparma – circolo valbaganza – comitato ecologicamente – comitato rubbiano per la vita –
comitato cave all’amianto no grazie – associazione gestione corretta rifiuti e risorse – no cava le predelle –
associazione per l’informazione ambientale a san secondo parmense

 

 

INTANTO IN PIEMONTE UNA RECENTE LETTERA AL MINISTRO CINI, CHIEDE DI INCENTIVARE LE BIOMASSE :

http://naturagiuridica.blogspot.com/2012/02/uncem-piemonte-lettera-clini-biomasse.html

 

Lettera dell’UNCEM a Clini: incentiviamo le biomasse

Posted: 26 Feb 2012 10:30 PM PST

Dopo Coldiretti – e dopo le Associazioni che raggruppano gli operatori professionali del fotovoltaico – anche Uncem Piemonte ha scritto a Clini in vista dell’emanazione, annunciata per fine mese, del decreto che riforma gli incentivi alle rinnovabili elettriche diverse dal fotovoltaico, ivi comprese dunque le biomasse forestali.
Nella lettera di Lido Riba, presidente di Uncem Piemonte, al ministro dell’Ambiente Corrado Clini, si chiede una maggiore attenzione rispetto alla terre montane in materia di biomasse legnose, che non metta in pericolo la concreta possibilità della nascita di una filiera energetica legnosa.
Una lettera, dunque, per chiedere una maggiore attenzione alle specificità delle aree montane nei decreti nazionali che andranno a regolare i nuovi incentivi per lo sviluppo delle energie rinnovabili.
L’Uncem Piemonte si unisce all’appello dell’Uncem nazionale e dell’Anci – lanciato nelle scorse settimane evidenziando il grande ruolo che l’area montana italiana, e piemontese in particolare – giocheranno nello sviluppo della green economy e nel raggiungimento degli obiettivi nazionali al 2020, secondo quanto previsto dal protocollo di Kyoto.
“Le Terre Alte – sottolinea Lido Riba – possono giocare un ruolo fondamentale nella crescita economica del Paese e nel generare maggiore energia “verde”, da fonti rinnovabili, riducendo inquinamento e impatto ambientale. Da anni l’Uncem sta lavorando in questa direzione, affinché chi vive e opera nelle Terre Alte possa poter utilizzare al meglio, ai fini energetici, risorse come acqua e legno, senza che queste vengano espropriate, in assenza di un adeguato compenso, da imprese che hanno come unico obiettivo il business. Non possiamo più permettere a un sistema economico “coloniale” di determinare la “morte economica” dei territori montani. Con i 553 Comuni e le 22 Comunità montane, stiamo lavorando per un nuovo inizio, per una crescita che farà bene a tutto il Piemonte. Solo per le biomasse, in Piemonte parliamo di circa 2.000 posti di lavoro (20.000 in Italia). Non possiamo sprecare questa occasione”.
Nella lettera al ministro Clini l’Uncem si sofferma in particolare sulle biomasse.
Se nel decreto rinnovabili gli incentivi risulteranno ridotti rispetto a quelli attualmente in vigore, potrebbe essere impossibile remunerare adeguatamente le biomasse forestali, quelle cioè collegate al territorio montano, dove sono presenti il 90 per cento degli 800mila ettari di bosco del Piemonte. Si pone l’accento, in ultima analisi, sulla considerazione che le cifre degli incentivi finora ipotizzate sarebbero compatibili solo con le produzioni secondarie, come biomasse agricole, cimali di pioppo, coltivazioni energetiche o paglie, ma non adeguate alla realtà forestale.
Uno dei nodi che, non si sa ancora come, ma verrà sciolto, è quello del prezzo del cippato, al momento troppo basso per remunerare chi lo produce e chi lo vende. Se poi la provenienza del cippato deve essere certificata e tracciata, il nodo rischia di trasformarsi in un macigno.
Uno dei punti salienti delle bozze circolanti consiste nella richiesta  di un utilizzo di cippato di legno certificato, tracciato, pagato adeguatamente ai proprietari dei boschi: tutti aspetti fondamentali, secondo l’Uncem, che però devono essere considerati quando si definiscono le cifre degli incentivi. Secondo Uncem, se non verranno garantiti 300/320 euro al megawatt prodotto dagli impianti cogenerativi (capaci di produrre energia elettrica e termica), per vent’anni, si mette a rischio la filiera legno delle aree montane, di fatto spingendo chi realizza gli impianti a importare cippato dall’estero. Alla faccia della filiera locale.
“Questo meccanismo è stato drammaticamente perseguito negli anni scorsi – aggiunge il presidente dell’Uncem – con troppi progetti grandi impianti a biomasse, nati senza alcuna garanzia di approvvigionamento locale, senza costruire un piano collegato al territorio, in grado di dare vantaggi a tutti gli anelli della filiera, dai proprietari dei boschi, alle imprese specializzate nel taglio in foresta e nella cippatura. Non possiamo non guardare con preoccupazione a questa condizione e chiediamo al ministro Clini, prima di firmare i decreti, di ripensare le cifre degli incentivi, guardando al territorio montano, dove si possono portare alla biomassa piccoli impianti cogenerativi, garantendo centinaia di posti di lavoro. Facciamo appello agli assessori regionali competenti in materia, ai tecnici della Regione Piemonte e ai Parlamentari che credono nello sviluppo del territorio montano, affinché si facciano interpreti delle richieste dell’Uncem ai tavoli di confronto che il ministero dell’Ambiente e il ministero dello Sviluppo economico promuoveranno nei prossimi giorni”.

Intanto, la Regione Piemonte, ha provveduto, con la L.R. 4/2009, art. 18, attraverso il meccanismo della gestione provvisoria associativa, a rendere più semplice la costituzione di associazioni ed enti che riuniscano i proprietari delle tante micro-particelle boschive di cui il Piemonte è pieno. La costituzione di soggetti giuridici è infatti il primo passo per la costituzione di una vera filiera locale per lo sfruttamento delle biomasse forestali.

Tuttavia, ogni cosa che è stata scritta o detta in materia di biomasse – e ogni missiva inviata al Ministro Clini – dovrà essere riletta alla luce del decreto Burden Sharing, quel testo che tradurrà gli obiettivi comunitari in materia di produzione energetica da FER e di risparmio ed efficienza energetica in obiettivi nazionali (vincolanti), che a sua volta si tradurranno in obiettivi regionali, declinati sulle diverse tipologie di fonti rinnovabili.
In altri termini, ogni fonte rinnovabile avrà un ruolo, descritto da una percentuale, in una sorta gi gioco di squadra che consentirà a ciascuna regione di conseguire la percentuale assegnata dal piano nazionale, in funzione delle rinnovabili più “sviluppate” sul proprio territorio.

Per capire come si articolerà questa piccola grande rivoluzione, consiglio la lettura della presentazione “Indirizzi e linee strategiche regionali in materia di politiche energetiche” dell’Ing. Stefania Crotta –  Responsabile settore Politiche Energetiche della Regione Piemonte, del 17 novembre 2011.

Fonte: http://www.cuneocronaca.it/news.asp?id=45588&typenews=primapagina

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