Le analisi di Fmi e Bce confermano che la crisi non è legata a eccessi di spesa pubblica e welfare.
Perché le ricette di politica economica continuano ad andare nella direzione opposta?
L’Europa si divide in due. Da un lato i Paesi del Sud. Le cicale. Fannulloni e pigri, non lavorano e hanno una bassa produttività, spendono troppo per welfare e stato sociale. Sono loro i responsabili della crisi e ora devono stringere la cinghia e accettare giusti e inevitabili sacrifici. Dall’altra i Paesi dell’Europa del Nord, riuniti attorno alla Germania. Le formiche. Seri, lavoratori, rispettano i parametri europei e sono un esempio di virtù.
Una conferma arriva lo scorso 14 marzo, quando il presidente della Bce Mario Draghi presenta alcuni dati ai capi di Stato e di governo della zona euro . Tra il 2000 e il 2012, nei Paesi dell’Europa del Nord, grosso modo produttività e salari crescono di pari passo. Uno sviluppo armonioso dell’insieme della società. Ben diversa è la situazione dell’Europa del Sud: i salari crescono molto più rapidamente della produttività, frenando la crescita e mettendo in crisi le nazioni periferiche e l’intera Europa.
Il problema di questo ragionamento è in una piccolissima svista, segnalata sul Guardian nei giorni scorsi.
Nei grafici presentati dalla Bce, la produttività viene espressa in termini reali, mentre i salari sono indicati in termini nominali. In altre parole, la prima serie di dati tiene conto dell’inflazione, la seconda no. Sarebbe come dire che 50 anni fa il pane costava 1 lira al kg e gli stipendi erano di 500 lire. Oggi gli stipendi sono di 1.000 euro, quindi si può comprare molto più pane. “Dimenticandosi” di segnalare che il pane nel 2013 non costa 1 lira al kg.
Se si prendono dati omogenei, le cose cambiano. Parecchio. Anche considerando un’inflazione al’1,9% annuo (obiettivo fissato dalle stesse istituzioni europee), tra il 2000 e il 2012 occorre tenere conto di un fattore correttivo intorno al 28%. Tenuto conto che l’inflazione, in particolare nei Paesi del Sud Europa, è stata in media molto superiore, la correzione da apportare è ancora maggiore. Se consideriamo produttività e salari o entrambi al netto dell’inflazione o entrambi con l’effetto dell’inflazione, scopriamo che in molti Paesi del Sud salari e produttività vanno di pari passo, mentre è in quelli del Nord, Germania in testa, che la forbice si allarga sempre di più, ma a discapito delle retribuzioni dei lavoratori.
In altre parole, non c’è nessun eccesso di Stato sociale, nessun diritto dei lavoratori da rimettere in discussione, nessun sacrificio da chiedere a chi ha già pagato un caro prezzo per una crisi nella quale non ha alcuna responsabilità. E’ dall’altra parte, nel Nord Europa, che alcune nazioni hanno sistematicamente violato gli impegni europei, hanno intrapreso una aggressiva politica di svalutazione salariale, e hanno improntato i rapporti nell’UE a una competizione sfrenata sulla pelle dei lavoratori, in barba ai proclami di collaborazione e alla stessa idea di “unione” europea.
Con questi dati, corretti della piccola “svista” sull’inflazione, la Bce di fatto conferma quali siano le responsabilità della crisi. Come, prima di tutto, i mostruosi debiti creati dalla finanza speculativa siano stati trasferiti agli Stati, poi da questi ai cittadini. Oggi non c’è nessun altro su cui scaricarli. Siamo rimasti con il cerino in mano e dobbiamo pagare il conto. Ed è un conto estremamente salato proprio in termini di tagli al welfare e allo Stato sociale, disoccupazione, precarietà e rimessa in discussione di diritti dati per acquisiti. Ma per non farci protestare troppo ci sentiamo ripetere quotidianamente che è pure colpa nostra. E che dobbiamo stringere la cinghia per “restituire fiducia ai mercati”.
Ricordiamo che l’Fmi, nei suoi ultimi studi, riconosce che le politiche di austerità in una fase di recessione non fanno altro che aggravare i problemi. Diminuisce la spesa pubblica, quindi il Pil, e molto spesso questo calo non è compensato da una analoga diminuzione del debito pubblico. Il risultato, oltre a una devastazione sociale, è un peggioramento proprio di quel rapporto debito/Pil che si pretende di diminuire.
Da un lato, quindi, la Troika continua a imporre piani di austerità e sacrifici a mezza Europa. Dall’altro, la stessa Troika ci mostra, dati alla mano, che le cause sono altre e che comunque le soluzioni sono inutili e nocive. L’unica speranza è che i burocrati europei, se non alle molteplici analisi che provengono da un numero sempre crescente di economisti, comincino a dare retta almeno a loro stessi.
“Se la Torika ascoltasse la Troika”, di A.Baranes
http://www.cadoinpiedi.it/2013/03/29/se_la_troika_ascoltasse_la_troika.html